Mostrare una Facciata
Per secoli, la nobiltà e i ricchi della Gran Bretagna e dell’Europa hanno ostentato la loro ricchezza in modi piuttosto pretenziosi. Castelli e cocchieri erano segni di ricchezza finanziaria. Abiti e gioielli servivano a esibire il proprio status. Nel Settecento e nell’Ottocento, le donne dell’alta società europea spendevano somme esorbitanti per allevare piccoli cani da compagnia. Non era raro che una donna si facesse ritrarre in un dipinto con il suo cagnolino in grembo, a testimonianza della sua ricchezza e posizione sociale.
In America, alla fine del XIX secolo, molti vivevano un periodo di prosperità economica. Uomini diventavano milionari grazie alle ferrovie, al petrolio e al mercato immobiliare. Le loro mogli, pur essendo ormai altrettanto benestanti, non avevano il retroterra culturale o il sangue reale delle nobildonne europee.
Queste mogli di milionari americani non avevano secoli di aristocrazia alle spalle, ma potevano comunque spendere somme considerevoli per importare e allevare i propri piccoli cani. Uno dei preferiti in Nord America era il barboncino.
E proprio come le donne facoltose d’Europa, anche loro si facevano ritrarre in dipinti mentre tenevano il loro barboncino in grembo. Così potevano comportarsi come se fossero nobili anche loro. Ma tutti capivano che era una messa in scena, tanto che nacque l’espressione “putting on the dog”—che letteralmente significa “mettersi il cane”, ma che si riferisce a chi cerca di apparire sofisticato o ricco senza esserlo veramente.
Francamente, è nella natura umana, non è vero? Anche i cristiani, oggi, vogliono apparire più spirituali di quanto lo siano in realtà. Magari adottano un atteggiamento devoto o usano un linguaggio spirituale in presenza di certe persone; oppure evitano di ammettere i propri fallimenti o peccati.
Ci sentiamo molto più a nostro agio a “mettere il cane” che a mostrare chi siamo davvero. È più facile nascondersi dietro un barboncino.
Ed è proprio per questo che colpisce tanto vedere come l’apostolo Paolo riveli qui la propria battaglia spirituale. Ci riesce difficile credere che per lui sia stato difficile vivere in santità quanto lo è per noi. Ma in Romani 7 non c’è nessuna maschera.
Ascolta la sua testimonianza a partire dal versetto 14:
“Infatti, noi sappiamo che la legge è spirituale; ma io sono carnale, venduto al peccato. Infatti, io non capisco quello che faccio; perché non faccio quello che voglio, ma faccio quello che odio. Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la legge è buona; quindi, non sono più io che lo faccio, ma è il peccato che abita in me. Difatti, io so che in me, cioè nella mia carne, non abita alcun bene; perché in me c'è il desiderio del bene, ma non la capacità di compierlo. Infatti, il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio. Ora, se faccio ciò che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me.” (versetti 14-20)
Forse stai pensando: “Ma Paolo sta combattendo la stessa battaglia che affronto io!” È proprio così. E continua:
“Mi trovo dunque sotto questa legge: quando voglio fare il bene, il male si trova in me. Infatti, io mi compiaccio nella legge di Dio, secondo l’uomo interiore; ma vedo un’altra legge nelle mie membra che combatte contro la legge della mia mente e mi rende prigioniero della legge del peccato che è nelle mie membra.” (versetti 21-23)
Qui Paolo parla della propria lotta. Sta scrivendo in prima persona e al tempo presente. Non si nasconde dietro un cagnolino per farsi ritrarre spiritualmente. È onesto, aperto, trasparente. E nel rivelare la sua esperienza personale, ci mostra tre verità sui veri credenti.
Primo, diventare cristiani non mette fine alla battaglia contro il peccato. Un vero credente non vuole peccare, ma a volte lo fa comunque. Paolo scrive al versetto 15: “Faccio quello che odio.” Non sta giustificando il peccato; sta semplicemente affermando che nessun cristiano, in questa vita, raggiungerà la perfezione. Continuiamo ad avere bisogno della grazia di Dio per tutta la vita.
Secondo, un vero credente ama la Parola di Dio. Al versetto 22 scrive: “Io mi compiaccio nella legge di Dio.” Sta dicendo: “Questo è il mio standard di vita, e desidero essere più fedele nell’applicare la Parola di Dio alla mia vita.”
Terzo, un vero credente desidera piacere a Dio conducendo una vita santa. Paolo scrive al versetto 19: “Il bene che voglio, non lo faccio.” Il credente è tirato in due direzioni opposte: la sua natura decaduta lo spinge verso il peccato, mentre la nuova natura lo attira verso la santità.
Questo testo è la testimonianza di Paolo—e di ogni credente. Tutti noi siamo coinvolti in una battaglia quotidiana per la purezza, la santità, la devozione, la pietà. Ogni giorno, cari, affronteremo una prova di purezza, una prova di integrità, una prova di umiltà. E Paolo, qui, parla in modo trasparente e sincero della lotta col peccato che tutti affrontiamo ogni giorno.
Si usa persino come esempio. Di nuovo, al versetto 15, scrive: “Non capisco quello che faccio... faccio quello che odio.” È un linguaggio forte: “Odio fare ciò che è peccaminoso.”
Poi offre una spiegazione nei versetti 16-17:
“Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la legge è buona; quindi, non sono più io che lo faccio, ma è il peccato che abita in me.”
Non sta dicendo: “È tutta colpa del peccato.” No. Si sta assumendo la responsabilità, ammettendo che il peccato dentro di lui controlla ancora la sua carne. Ascolta: il grande apostolo Paolo sta confessando di essere peccatore. Potremmo dire che si rifiuta di “mettere il cane”—cioè di fingere di essere qualcuno che non è.
Sta facendo un’ammissione sincera, dicendo in sostanza: “Il peccato abita nella mia carne, e mentre il nuovo me—la nuova creatura in Cristo—vuole fare ciò che è giusto, la parte vecchia di me, a volte, cede ai vecchi modi di pensare e di vivere.”
Ammette di vivere con questa tensione. Sa chi è in Cristo—perdonato per sempre—ma vive ancora ogni giorno la battaglia contro la carne.
Lascia che te lo dica in questo modo: un giorno saremo liberati eternamente dalla nostra carne decaduta; ma nel frattempo, dobbiamo combattere ogni giorno contro di essa!
Cari, i cristiani che maturano diventano sempre più consapevoli della propria peccaminosità. Non c’è bisogno di fingere.
Infatti, Paolo conclude la sua testimonianza personale al versetto 24 con queste parole: “Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” Nota che non dice: “Cosa mi libererà?”, come se ci fosse qualcosa che possa fare, ma “Chi mi libererà?”—e la risposta è chiara: la sua speranza—e la nostra—è Gesù Cristo, l’unico potere sulla terra che può salvarci. Solo Lui può redimerci dalla pena del peccato, dal potere del peccato, e un giorno anche dalla presenza del peccato.
Paolo conclude così: “Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore!” (versetto 25). Ecco la tua speranza e la mia oggi. Falliamo, pecchiamo, non piaciamo sempre al Signore, ma “grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore,” che ci ha salvati e perdonati.
La nostra vittoria è in Gesù Cristo soltanto!
Conclusione:
In Romani 7, l’apostolo Paolo afferma e dimostra attraverso la propria esperienza che ogni credente è impegnato in una continua e dolorosa battaglia contro il peccato. Ci saranno sconfitte, ma la vittoria finale è garantita mediante la potenza di Gesù Cristo.
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